ROMA - A guardarla superficialmente potrebbe sembrare perfino una piccola casa di vacanze con quella sorta di minuscolo ambiente esterno, i giocattoli sui tavolini, la mansardina, gli scalini con alla base il lavabo esterno per i piatti e un altro manufatto con due stanzette. Però nessuno si sognerebbe di costruire una casa di vacanze davanti ai binari del treno e forse solo per gioco la realizzerebbe in bottiglie di birra, ben meno isolanti e termiche dei laterizi.
Anna e Joseph, slovacchi, abitano alla periferia di Roma, nel quartiere Nomentano, insieme con i due figli, Annamaria e Marco, entrambi nati in Italia.
Assistenti sociali e volontari li conoscono bene, offrono i pasti ai piccoli ogni giorno di scuola. D'altronde, sono otto anni che la famiglia slovacca vive tra la ferrovia e il fiume Aniene, in povertà ma molto dignitosamente, in questa specie di casa che forse non entrerà nella storia dell' architettura, ma di certo colpisce per la sua originalità: una passata di cemento, una di bottiglie, una di cemento, una di bottiglie, così, fino a due metri di altezza. Da terra, però, l'acqua penetra facilmente e dentro, senza la stufa, si gela.
"Abbiamo amici che bevono molto, abbiamo chiesto loro di aiutarci e lo hanno fatto fornendoci le bottiglie", spiega la signora Anna, occhi chiari, 36 anni dei quali gli ultimi otto qui dopo la morte dei genitori e conseguenti problemi economici. Anna lavora come domestica, fa pulizie dovunque capiti pur di sbarcare il lunario; Joseph, il marito, lavora - quando trova un impiego - nell' edilizia, ma anche in qualunque altro settore. Ad aiutarli, come con due confinanti bielorussi, è una energica ottuagenaria italiana, Luciana, che abita nel palazzo di fronte.
All'interno della casa campeggia una copia abbozzata ma in stile del celebre autoritratto di Van Gogh. "Lo hanno fatto i nostri figli, Annamaria e Marco - spiega Anna - amano dipingere". E infatti, a guardar bene, la parete è piena di piccoli quadri disegnati dai bambini.
Piccole, grandi storie di povertà che si rincorrono nella Capitale e che si possono conoscere solo frequentando la "marginalità sociale" nei quartieri più periferici della città, in vere e proprie "favelas" che sorgono a ridosso di ferrovie o lungo i due fiumi, Tevere e Aniene, che attraversano Roma.
I nuovi poveri avanzano geograficamente e numericamente occupando argini di fiume, piloni di tangenziale, grotte o radure. Baracche, teloni e cartoni sembrano una caparbia conferma al diritto all' esistenza, prima che un ricovero. Un diritto ribadito a costo di violare regole urbanistiche e topografiche che per chi è ai margini appaiono promulgate per tutti gli altri.
A Roma duemila persone vivono in strada; altre 8/9.000 in auto, baracche, accampamenti. Un'ondata di disperati, nonostante gli sforzi dell'associazionismo - fra cui Comunità di Sant' Egidio e Caritas - e del Comune che negli anni ha moltiplicato i posti di accoglienza (4.200 i posti per le emergenze immediate e 15 mila per quella abitativa) e diversificato gli interventi, allestendo, tra l'altro una Sala Operativa Sociale (800.440022).
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